Il tema del lavoro è l'argomento che tratto nell'articolo
che segue partendo dalla questione del salario minimo per poi affrontare il
tema della rappresentanza sindacale e della proposta di legge, poi approvata,
della Cisl sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione dell'azienda.
Lo propongo in due puntate:
1) Salario minimo e Rappresentanza sindacale
2) Cisl – Legge Partecipazione dei lavoratori alla gestione
dell'azienda
Premessa
Il tema del lavoro dipendente riportato, per almeno un mese,
al centro del dibattito politico, grazie a un referendum, non può e non deve
tornare in secondo piano, nonostante una situazione internazionale infernale.
Ma il tema del lavoro va oltre i quesiti posti dai tre referendum proposti
dalla Cgil e sostenuti dal nostro partito. Ce n'è anche un quarto sulla
“sicurezza” che non affronteremo in questa occasione.
Avendo anche presente, riguardo in particolare ai giovani
sulla questione “precarietà”, quanto afferma Daniele Marini, docente di
Sociologia a Padova e direttore scientifico di Community Research&Analysis:
«Prendiamo la precarietà. Fino a qualche anno fa se chiedevo ai miei studenti quale termine associassero al sostantivo lavoro, mi rispondevano tutti la precarietà. Oggi no. La flessibilità è vista come la libertà di cambiare spesso occupazione. Infatti, paradossalmente quella che era una necessità aziendale è ora, sempre di più una scelta, del lavoratore più giovane, soprattutto se formato, non necessariamente laureato o diplomato. Il lavoro non è più legato al posto, la tutela sindacale invece sì. Ma, a volte, difendendo anche comprensibilmente il posto, si dimentica la persona, la sua formazione, la sua possibilità di scegliere un altro di lavoro, migliore. La flessibilità ora è temuta dalle aziende che non riescono a trattenere i collaboratori di cui hanno disperato bisogno... [e] sono ancora pochi i contratti nazionali che assicurano un'offerta formativa a tutti i lavoratori. Questo è un modo di proteggerli. Il welfare è ormai una parte insostituibile del salario differito (corsivo mio)». (in F. De Bortoli, Lavoro & lavori, la grande sfida tre crescita e produttività, “L'Economia del Corriere della Sera”, 16 giugno 2025).
E noi dovremmo, infatti, puntare sulla formazione seria e il rafforzamento degli ammortizzatori sociali in grado di proteggere nei momenti di mobilità o, come li chiama Marini, di “salario differito”. Come per la «piaga del lavoro povero, malsicuro e mal retribuito», per Pietro Ichino la cura migliore del sarebbe l’attivazione, per chi è in quella situazione, «di servizi efficaci di informazione, formazione mirata agli sbocchi effettivamente esistenti, ed eventualmente anche assistenza alla mobilità [con qualche avvertenza come sottolinea più avanti, NdR]» (Dialogo su l’intelligenza del lavoro (e dintorni). Intervista a Pietro Ichino).
Qui entrano in campo Previdenza e Sanità, calo demografico e Snn in difficoltà. Questioni che andrebbero affrontate seriamente e non con slogan.
Salario minimo (lavoro povero/precarietà), rappresentanza
sindacale e legge sulla partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa,
approvata dal Parlamento in via definitiva nel maggio scorso, temi che
politicamente andrebbero affrontati nel loro complesso.
Questioni contenute in tre articoli della Costituzione:
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente
ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata
massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
– Art. 39.
L'organizzazione sindacale è libera.
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione che gli statuti dei
sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica.
Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti,
stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti
gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.
Come Pd dovremmo riproporre con forza, studiandole, la questione del salario minimo legato a una legge sulla rappresentanza sindacale. Due temi che necessitano però di un'attenta valutazione. Marco Leonardi sulla rivista il Mulino (marzo 2025) sostiene che «il salario minimo non risolve da solo il tema dei bassi salari, l’esperienza dell’inflazione degli ultimi due anni ci incoraggia anche a ripensare i sistemi di contrattazione. Il sistema dei Ccnl sembra fatto su misura per l’industria dove effettivamente funziona e nel lungo periodo i salari tengono il passo dell’inflazione. Non funzionano però nel settore dei servizi che oggi rappresenta più del 60% dell’economia».
Se non sbaglio chi regola la rappresentanza sindacale in
Italia è principalmente l'articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori (legge 20
maggio 1970, n. 300) integrato con successivi accordi interconfederali e
contratti collettivi. Ma non ci sono leggi ad hoc per la misurazione
della rappresentanza e per il contrasto ai contratti-pirata. Ma da quanto tempo
se ne parla? «Tantissimo – scrive Dario Di Vico – ma non si sono visti
risultati concreti e ci sono ancora divisioni tra le sigle mentre sul campo
aumenta l’influenza dei Cobas nei trasporti e nella logistica». (Cgil, Cisl
e Uil al test dell’unità: l’incontro del 26 giugno è un assist di Orsini ai
sindacati, ecco perché, “L'Economia del Corriere della Sera”, 8 giugno
2025).
Salario minimo, 9 euro lordi l'ora?
In sintesi, come sostengono diversi economisti tra i quali
Leonardi, Tito Boeri e Lia Pacelli, il salario minimo è uno strumento
importante per ridurre la povertà, per contrastare il lavoro nero e proteggere
i lavoratori con redditi bassi, ma andrebbe inserito in un quadro più ampio di
politiche economico-sociali e di rappresentanza sindacale.
Una condizione che parte – scrivono Rinaldo Evangelista e
Lia Pacelli, curatori del libro Lavoro e salari in Italia (Carocci, 2025).
– dalle «diverse fragilità della struttura occupazionale italiana» che
alimentano bassi salari e crescita del lavoro precario» problematiche –
proseguono in due economisti – «oltre che dipendere da elementi specifici del
contesto economico e istituzionale italiano» sono da connettere alle «tendenze
che agiscono su scala globale».
Molto interessante è il contributo di Milena Gabanelli e Rita
Querzè sul “Corriere della Sera” - Dataroom Salario minimo: in tre milioni
sono sotto. Chi non lo vuole e perché (30 ottobre 2023).
Dopo aver elencato i paesi europei in cui viene applicato il
salario minimo e di aver smentito i detrattori della misura, secondo i quali il
salario minimo potrebbe innescare un meccanismo al ribasso: «nella pratica –
scrivono Gabanelli e Querzè – tutto questo nei Paesi europei che già da anni
hanno introdotto il salario minimo non è mai avvenuto».
Se è vero come sostiene il Cnel che in Italia la «contrattazione
fra le parti sociali copre almeno il 95% dei lavoratori: il 92% con contratti
firmati da Cgil, Cisl e Uil e il 3% dai sindacati minori. Ad avere invece il
contratto di una sigla pirata, cioè nata apposta per firmare accordi al
ribasso, è soltanto lo 0,4% dei lavoratori dipendenti» (Gabanelli e Querzè). Secondo
le due autrici, però, quei numeri sono solo parzialmente veri. Al momento della
stesura dell'articolo in parola la «Fondazione dei consulenti del lavoro,
analizzando solo i principali accordi, ha individuato ben 22 contratti di
categoria sotto i 9 euro lordi l’ora, firmati da Cgil, Cisl e Uil». Sono quelli
del personale delle cooperative e consorzi agricoli; quello dei dipendenti
delle imprese di pulizia; i dipendenti dell’industria delle calzature; gli
addetti della vigilanza «pagati 5,37 euro l’ora da un contratto firmato non da
sindacati di comodo, ma da quelli confederali con il mondo delle cooperative». La
Cassazione, in questo caso, basandosi sull'articolo 36 della Costituzione, ha
sentenziato che la «retribuzione garantita non ha le caratteristiche di “proporzionalità
e sufficienza”».
In Germania, in queste settimane, si sta valutando di alzare
il salario minimo orario dai 12,82 euro attuali a 13,9 euro nel 2026 e a 14,6
euro nel 2027, il «livello in valore assoluto più alto d’Europa dopo il
Lussemburgo» (L. Capone “Il Foglio Quotidiano”, 1 luglio 2025). A differenza
dell'Italia, dove la richiesta dell'introduzione del salario minimo era partita
da una proposta di legge del nostro partito, il Pd, e da altre formazioni del
centro sinistra, in Germania la proposta è stata avanzata «dopo una valutazione
di una commissione indipendente, la Mindestlohnkommission» formata – scrive
Capone nell'articolo citato – «da due accademici che però non hanno diritto di
voto, tre rappresentanti dei sindacati, tre dei datori di lavoro e un
presidente che ha il compito principale di mediare tra le parti e, solo in caso
di stallo, può votare. In secondo luogo, la Commissione ha un mandato
istituzionale preciso, che è quello di individuare la soglia del salario minimo
avvicinandosi al parametro di riferimento del 60 per cento del salario mediano,
valutando però anche situazioni eccezionali e le ricadute su settori specifici
o regioni particolari oltre che sulla produttività, in modo non produrre
conseguenze negative sull’occupazione».
Senza entrare nei dati specifici (rimandiamo all'articolo),
abbiamo voluto segnalare l'articolo di Capone, al di là dei giudizi espressi
dal giornalista del “Foglio” sull'operato del centro sinistra sulla questione,
consapevoli delle differenze che esistono nelle relazioni industriali fra
Italia e Germania, ma interessati a conoscere che cosa succede in Europa sui
temi delle tutele del lavoro.
In Italia come si sa, il Cnel, a maggioranza, ha respinto la
proposta di legge sul salario minimo senza spiegare «come si rilancia la
contrattazione». Gabanelli e Querzè citano la Fondazione consulenti del lavoro,
presieduta da Rosario De Luca, marito della ministra del Lavoro Calderone, la
cui proposta «si basa sulla misurazione della rappresentanza dei
sindacati e delle associazioni delle imprese: definire i settori, prendere per
ciascuno l’accordo più rappresentativo per numero di aziende, dipendenti e valore
prodotto, quindi applicare la paga minima e le tutele al resto del comparto,
vietando accordi peggiorativi (corsivo mio)».
Rappresentanza sindacale
(art. 39 della Costituzione e art. 19 Statuto dei
Lavoratori/Legge 300/1970 e successive modifiche)
Secondo Pietro Ichino, professore di diritto del lavoro, l’articolo 39 della Costituzione conterrebbe una contraddizione interna perché stabilisce da una parte il principio di libertà sindacale escludendo la «possibilità di predeterminare le “categorie” entro le quali i sindacati possano contrattare ed essere misurati», ma dall'altro «nel quarto comma prevede un meccanismo di estensione erga omnes degli effetti dei contratti collettivi che presuppone la predeterminazione di quelle “categorie”. Se dunque sindacati diversi possono stipulare contratti collettivi che disegnano categorie con perimetri diversi rispetto ai sindacati confederali, come si individua la categoria a cui si deve fare riferimento per misurare la maggiore rappresentatività delle associazioni stipulanti?». Questo comporterebbe secondo Ichino che la «via per stabilire standard retributivi minimi di applicazione universale difficilmente potrà passare per un'estensione erga omnes del campo di applicazione di contratti collettivi nazionali» (Rappresentanza sindacale: il nodo difficile da sciogliere, “lavoce.info”, 24 settembre 2019).
Se l'estensione dei Ccnl erga omnes è una via “molto
stretta” quale alternativa possibile alla contrattazione centralizzata e quindi
all'applicazione di contratti collettivi nazionali? Secondo Dario Di Vico,
esperto giornalista economico che ha lavorato come sindacalista per la UILM di
Torino, «soltanto il negoziato dal basso può infatti aderire alle pieghe della
società, differenziare le soluzioni, creare coesione sociale».
Conclusione a cui giunge avendo constatato che la
politicizzazione dell'«arena sindacale» produrrebbe «meno contrattazione, meno
relazioni industriali positive, meno autonomia della società civile» quando invece
i «problemi che la nostra società industriale si trova davanti, dalla gestione
delle transizioni ecologica e digitale fino alla cronica mancanza di manodopera
per la crisi demografica, non si prestano a essere regolati dall'alto, con una
continua richiesta di nuova legislazione. La richiesta di buone relazioni
industriali non è prerogativa di una particolare corrente che, fortunatamente,
ancora è presente nelle categorie sindacali e nei giuslavoristi, ma corrisponde
a un'esigenza di governo delle società complesse». (D. Di Vico, Poca
contrattazione. I rischi del sindacato-partito, “L'Economia del Corriere
della Sera”, 16 giugno 2025).
Difficile dire se quanto scrive Di Vico sia una effettiva
fotografia della realtà o solo una parziale lettura di essa. Prendiamo atto che
Luigi Sbarra, ex segretario generale della Cisl, dal 12 giugno 2025, è
sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega
per il Sud e che la Cgil di Maurizio Landini sembra muoversi più da partito che
da sindacato. La scelta referendaria parlava sì «di lavoro», ma era soprattutto
una chiamata identitaria a serrare le fila a sinistra.
A fronte di questa polarizzazione politica che sembra
pervadere i sindacati Confederali, quello che possiamo constatare è la
frammentazione sempre più evidente del “mondo del lavoro”, polverizzazione che
corrisponde, per limitarsi al settore privato, a una miriade di contratti. «A
complicare le cose poi è la nascita di sempre nuove associazioni delle imprese.
Ciascuna firma un suo contratto ... Nella pratica da anni la contrattazione in
molti settori non riesce più a negoziare salari decenti. La maggior parte degli
accordi al ribasso sono firmati da associazioni delle imprese che fanno
riferimento al mondo delle piccole aziende e della cooperazione, ma qualcuno
anche da Confindustria. Tutto questo avviene per diverse ragioni intrecciate
tra loro, a partire dal fatto che i sindacati in molti settori si sono
indeboliti. Dove le aziende sono piccole non riescono nemmeno a entrare (in
Italia il 95% delle imprese è sotto i 10 dipendenti). Inoltre, sono sempre più
diffusi i contratti flessibili di ogni tipo: chi non è stabile difficilmente
protesta» (Gabanelli e Querzè).
Per non parlare del lavoro nero «una piaga tipica del nostro Paese, e che andrebbe stroncata con maggiori controlli». Infine, c'è il problema dei contratti nazionali di lavoro scaduti come il settore metalmeccanico e quello delle telecomunicazioni. Il contratto dei metalmeccanici è scaduto a giugno 2024, mentre quello delle telecomunicazioni è scaduto da oltre due anni.
Sulla homepage del sito di Confindustria si leggeva il 26 giugno: «Riprendiamo a dialogare con i sindacati, è in gioco la crescita del Paese». Si riferiva all'incontro, previsto da diverse settimane, tra Emanuele Orsini, presidente di Confindustria, e i segretari Maurizio Landini della Cgil, Daniela Fumarola della Cisl e Pierpaolo Bombardieri della Uil. A incontro avvenuto, da quanto si legge dai resoconti giornalistici, tanto il presidente di Confindustria quanto i segretari di Cgil, Cisl e Uil si sono dichiarati ottimisti.
«Secondo
Confindustria i punti in comune riguardano la prevenzione degli incidenti sul
lavoro e le politiche industriali italiane» Su questi punti sarà «costruito –
afferma il presidente di Confindustria Orsini – un percorso di incontri».
Confindustria ha dato disponibilità a riaprire le trattative interrotte come
quella sui metalmeccanici. «Se questo incontro si fosse svolto prima sarebbe
stato meglio – ha commentato Bombardieri – però è stato assolutamente positivo:
la sicurezza sul lavoro è la priorità per tutti, muore ancora troppa gente».
Landini ha dichiarato: «È chiaro che quando si parla di politica industriale
oltre a quello che si può fare assieme alle imprese c’è un tema che riguarda
anche le politiche del governo e su queste si è avviato un confronto che è in
grado di rappresentare tutti i punti di vista».
«Quello di oggi – ha detto Daniela Fumarola della Cisl – con i vertici di Confindustria è stato un incontro importante e positivo. Abbiamo avviato un percorso di confronto che riteniamo possa essere molto utile, sia per il Paese che per le persone che rappresentiamo». Per quello che riguarda i tre sindacati, il problema grave è quello dell'unità che da tempo latita. Noi dovremmo “auspicare” l'unità sindacale.
La Cisl, ad esempio, negli ultimi
due anni non ha partecipato agli scioperi generali, ha promosso una legge di
iniziativa popolare sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle
imprese (tema che affrontiamo in un secondo articolo) a cui la Cgil era
contraria come la Cisl era contraria ai
recenti referendum (con l'adesione tiepida della Uil) sul lavoro e sicurezza.
Per far funzionare gli incontri sui
temi al centro dell'incontro – scrive Luciana Cimino sul “Manifesto” del 27
giugno: «si partirà dagli accordi in vigore e firmati da tutte le
organizzazione, come il Patto per la fabbrica».
Il Patto è stato firmato da
Confindustria e dalle principali organizzazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil. L'accordo
– riassume AI Overview – «mira a definire un nuovo modello di relazioni
industriali in Italia, con un focus sulla centralità dell'impresa e della
persona nel lavoro. Questo accordo, stipulato il 9 marzo 2018, introduce un
approccio partecipativo e stabile alle relazioni industriali, con l'obiettivo
di aumentare la produttività, migliorare le condizioni di lavoro e rafforzare
la contrattazione collettiva».
I capitoli del “Patto” sono: 1) –
un nuovo modello di relazioni industriali; 2) – la centralità della persona nel
lavoro; 3) – la contrattazione collettiva; 4) – la sicurezza e la salute; 5) la
riduzione del costo del lavoro e politiche attive per l'occupazione.
1) continua
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