Il Blog del Circolo del PD "Renzo Bonazzi"


Il futuro ha bisogno di coraggio

 


Intervista con Don Giuseppe Dossetti (a cura di Maurizio Frignani).

Incontro Don Giuseppe Dossetti nella sua chiesa storica, quella di San Pellegrino. C'è già caldo anche se sono le nove del mattino. Fortunatamente gli spessi muri della canonica ci permettono di respirare. L'ho ascoltato diverse volte, ma non gli ho mai parlato anche se la sua biografia familiare, le sue scelte religiose e di vita sono, perlomeno a Reggio, molto note. L'anno scorso, in occasione del 50° della sua ordinazione a sacerdote, molti articoli sono stati scritti su di lui.

Comincio da una cosa che mi è venuta in mente guardando la targa commemorativa di fianco all’ingresso della canonica, che ricorda come nel 1943 proprio qui a San Pellegrino si tenne la prima riunione del CLN provinciale. Trent’anni anni dopo io frequentavo la scuola media C.A. Della Chiesa (che allora si chiamava Belvedere) e il giorno prima del 25 aprile ci fu un incontro di noi ragazzi con Don Angelo Cocconcelli, parroco di questa chiesa, e Otello Montanari, che si divertirono a raccontarci in modo rigoroso, ma anche simpatico, la storia della Resistenza. Questa parrocchia ha una storia simbolica.

Adesso c’è anche la tonaca di Don Pasquino Borghi.

Non lo sapevo, ora capisco la sua immagine sulla parete del circolo parrocchiale…

In sacrestia abbiamo in realtà il cappotto, non la tonaca, che lui indossava quando fu fucilato nel gennaio 1944 insieme ad altri otto. San Pellegrino era un luogo strategico di scambio tra la pianura e la montagna. Qui venivano a prendere indicazioni i giovani che volevano scappare in montagna, si raccoglievano soldi e cibo da mandare su, e venivano giù feriti per farsi curare, tra cui un comandante militare delle Brigate Garibaldi. Verso la metà di gennaio Don Pasquino Borghi era venuto a prendere un po’ di aiuti e qui c’erano Don Angelo e mio zio che gli dissero: “I fascisti di Villa Minozzo sanno che tu ospiti delle persone in canonica, è troppo pericoloso, mandali via!” E lui rispose: “E dove li mando poveri ragazzi, che c’è la neve e nessuno li vuole?”. Poi aggiunse una frase che, quando mi fu riferita, un po’ mi stupì e cioè “Per la patria si può anche dare la vita”. Per la nostra sensibilità ora ci sembra un po’ strano, ma lui intendeva per il bene comune. A quel punto mio zio e don Angelo tacquero e dopo dieci giorni ci fu il patatrac e cioè un’ispezione a Tapignola in cui trovarono questi prigionieri alleati che erano fuggiti dai campi di prigionia e quindi l’arresto e l’esecuzione. Quando si dovette scegliere dove esporre la tonaca crivellata dai proiettili San Pellegrino è sembrato il luogo più adatto.


Quindi lei ha preso il posto di Don Angelo, che fu parroco qui per più di 50 anni. A questo punto le faccio una domanda che avrà sentito tante volte. Il suo è un cognome importante, questa eredità familiare non è stata qualche volta anche un peso?

No, io sono contento di portare questo cognome e anche questo nome. L’unica cosa è che talvolta attribuiscono a mio zio quelle poche cose che ho fatto io.

Già, come mai zio e nipote con lo stesso nome?

Nella nostra famiglia Giuseppe era un nome di tradizione, ma la verità è che mio padre voleva molto bene a suo fratello, e al primogenito ha dato il suo nome.

Ora ho un altro ricordo, solo leggermente più recente, parlo di quaranta anni fa. A uno dei tanti incontri che la FGCI allora faceva sul problema della droga lei fu invitato e presentato con molta enfasi come fondatore del Ceis e lei disse in maniera tranquilla e disarmante: “Ma non l’ho scelto io! Il vescovo mi ha chiamato e io ho obbedito”. Mi racconti ancora la sua storia. Lei proveniva da una lunga esperienza di lavoro in fabbrica, come prete operaio, durante gli anni ’70.

Era stato individuato come responsabile del Ceis Franco Marchi, un mio amico intelligentissimo, anche lui prete, che ebbe come tanti una crisi d’identità e pensò di poter servire la chiesa e la gente in altro modo. Chiese la dispensa dagli obblighi del celibato. Si sposò, ebbe due figli e rimase impegnatissimo nell’attività della parrocchia di Sant’Alberto. Siccome era laureato in pedagogia diventò il direttore della scuola materna Manodori, quella dell’allora Cassa di Risparmio, dove fece cose belle e di grande modernità. Il vescovo lo chiamò perché tanti genitori di tossicodipendenti, che avevano fondato il Comitato Cittadino Antidroghe, si stavano organizzando per avviare una comunità. Andarono a Roma da don Picchi e gli piacque quel modello perché non colpevolizzava i genitori, come invece facevano tutti, anzi li prendeva come collaboratori del programma. Don Picchi disse: “Vi aiuterò se trovate un prete, una casa e dei soldi”. Il vescovo pensò a Marchi e nel 1982 lui cominciò a scrivere sui giornali per raccontare il Ceis. Io mi sentivo come se avessi preso un pugno nello stomaco, non leggevo l’articolo, voltavo pagina, e pensavo: “Povero illuso che vuoi salvare i ragazzi. Non sai che i drogati sono irrecuperabili? Io ci ho provato e ho fallito. E le ho provate tutte, quindi se ho fallito io fallirai anche tu”. Io avevo tenuto in casa uno dei primi tossicodipendenti di Reggio e avevo fatto tutti gli errori di un genitore. Tutti. E avevo provato anche le sofferenze, senza essere un genitore certo, ma rendendomi conto di quanto potessero essere grandi. E quando questo ragazzo fu arrestato io mi dissi: “Sono contento. Non mi occuperò più di drogati, perché devo riconoscere che sono senza speranza.” Quindi puoi capire il mio entusiasmo quando il vescovo mi chiamò e mi disse che Franco era malato (e sarebbe purtroppo morto un anno dopo, nel 1984). Le sue parole furono: “L’ho chiesto a Tizio e non vuole, a Caio e non può, insomma l’ho chiesto a tutti e tu sei l’ultimo della lista. Puoi dire di no, ma tieni presente che sei l’ultimo della lista”. La mise in sfida e io non potevo non accettare. Avevo però dei pregiudizi enormi, che mi passarono quando andai da don Picchi e mi misero a frequentare il corso e poi in comunità. Soffersi molto, ma poi ho capito il senso del programma e che si poteva fare.

Mi ricordo che allora ogni volta che si parlava di aprire una comunità, c’era l’insurrezione del vicinato o dell’intera frazione, anche se spesso erano relegate e disperse in piena campagna. Sembra un altro mondo, forse poi qualcosa è cambiato.

È cambiata molto la meccanica della tossicodipendenza. Allora si parlava di eroina, e il tossicodipendente di allora in parte quasi si atteggiava a marziano, diverso, contestatore Ora la cocaina e altro sono droghe prestazionali che quasi si ostentano sui social e chi le consuma è indistinguibile, per cui c’è meno paura sociale

Già, allora il drogato era associato strettamente a siringhe nei parchi, furti di autoradio ecc. Ora c’è più allarme per altre forme di dipendenza su cui negli anni il Ceis ha iniziato a intervenire. Parlo di ludopatie, disturbi alimentari, alcolismo ecc.

La dipendenza è un pericolo per la democrazia. Potremmo discutere ad esempio della professione dell’influencer, che cerca di produrre dipendenza. Temo sia un fatto ormai strutturale.

Dalle dipendenze l’attività si è poi allargata a fenomeni più generali di disagio: immigrazione, accoglienza, assistenza…

Su questo ho una mia teoria. Mi richiamo a un libro di Achille Ardigò, sui mondi vitali. Cosa sono i mondi vitali? Sono depositi di energia umana che possono creare problemi o possono essere usati positivamente. Come l’acqua che è fonte di vita, ma se non regolata può causare disastri. Ci sono dei depositi di energia umana che bisogna identificare e orientare. Normalmente sono legati a situazioni di sofferenza. Infatti il Ceis è nato con i genitori, che lo hanno fatto crescere, perché la loro sofferenza era stata enorme. Un'altra grandissima riserva di energia umana sono gli immigrati. Molta sofferenza e moltissimo utile potenziale. Pensiamo solo alle badanti. Noi abbiamo cominciato 25 anni fa a far lavorare gente prima dell’Europa dell’est e poi di ogni parte del mondo. Con le famiglie corte che abbiamo oggi, come si farebbe senza?

Di cosa c’è bisogno nella società reggiana di adesso, economicamente ricca e vitale, ma in cui non ci sono più le generazioni che l’hanno costruita?

Di più coraggio, certamente. E poi un legame maggiore tra chi amministra e i cittadini. Noi abbiamo ancora risorse morali e culturali per affrontare i problemi, ma serve anche un approccio di tipo umanistico, non solo scientifico ed economico. La cultura umanistica è una premessa dell’innovazione tecnica.

Qual è il suo rapporto con chi amministra la città, con sindaco e assessori?

Il rapporto è di stima reciproca, ma l’apparato è pesante. Poi dipende dall’apparato. Il sistema dell’assistenza, per esempio, è fatto da tanti che si impegnano generosamente pur con carichi di lavoro pesanti. Ma anche qui ci vuole più coraggio nell’identificare i problemi. Faccio due esempi. Io ho una casa di riposo qui. Stiamo cercando in tutti i modi di trovare infermieri e operatori sociosanitari. Non ne troviamo. E questa è la situazione di tutte le case di riposo. Se aggiungiamo che il pubblico fa i suoi concorsi a cui i nostri operatori partecipano, il risultato è che noi rischiamo di collassare per mancanza di personale. Non ho sentito nulla sulla pianificazione del futuro. Sono questioni che vanno affrontate con una programmazione decennale. Il secondo esempio riguarda lo sblocco degli inghippi burocratici o dei conflitti tra istituzioni. Noi facciamo parte del sistema dell’accoglienza degli immigrati, e gestiamo 100/150 persone. Per noi è una cosa grossa, ma non maggioritaria nel complesso della nostra attività. Io ho voluto esserci proprio per quel ragionamento sui mondi vitali che facevo prima. Altri come la Dimora di Abramo e l’Ovile lavorano principalmente su quello. La prefettura ci paga da tempo con un ritardo di un anno e quindi siamo costantemente in crisi di liquidità. Parliamo di un credito di 800mila euro. Pensate alla situazione di chi gestisce molti più immigrati di noi. Ora sono arrivati gli ucraini, per cui si sono spese molte giuste parole per l’accoglienza, ma i soldi li anticipa il terzo settore. L’accoglienza la paghiamo noi. Questo il sindaco lo sa, il prefetto lo sa, abbiamo fatto riunioni ma non è cambiato niente.

Ora ci dedichiamo a cose più religiose.

Bene.

Ho letto che il vescovo continua ad accorpare le parrocchie. Questa riorganizzazione, oltre ad esigenze pastorali, dipende sicuramente anche da carenza di vocazioni. Che visione ha di quello che sarà tra qualche anno?

Che ogni anno c’è un nuovo prete mentre ne muoiono 8 o nove. Prete deriva da presbitero, che vuol dire anziano. Si può dire che anch’io rientro pienamente nella categoria. Sulle prospettive devo dire che mi sono interrogato spesso sulle intenzioni del Fondatore.

Non avevo mai sentito chiamare Gesù “il Fondatore”…

Secondo me la sua intenzione, e quello che voleva, era una chiesa povera. Quando eravamo giovani la povertà della chiesa era un nostro cavallo di battaglia, però era una povertà economica. Adesso come reagiremmo se il 90% dei reggiani andasse a messa e ci fossero 1.500 preti invece di 200? Diremmo come siamo bravi e ce ne attribuiremmo il merito. Il Signore ci dà il successo proporzionato alla nostra umiltà. Siccome non siamo molto umili ci sta bacchettando un po’. È l’occasione per spingere i cambiamenti che vedo già nei giovani preti e cioè una chiesa più centrata sull’essenziale e più umile. C’è anche la ricchezza offerta dai diaconi, tra l’altro il movimento diaconale è nato qui a Reggio. Io sono ammirato dall’impegno e dalla dedizione di questi mariti e mogli, perché il diaconato investe la coppia. Questo può dare respiro per tutta la parte organizzativa ed educativa. Il prete conserverà una sua parte più specifica. Poi si può immaginare l’ordinazione di uomini sposati di una certa età.

Alcune confessioni cristiane, che già permettono il matrimonio dei preti, si stanno orientando verso il sacerdozio femminile...

Per quello è un po’ presto. Io ho conosciuto bene la chiesa ortodossa serba e sono rimasto colpito dalla ricchezza di vocazioni maschili e femminili e dal loro spessore spirituale. Loro però hanno qualcosa che noi non abbiamo e cioè il monachesimo. Loro hanno i preti sposati in parrocchia, i monaci nel monastero e il vescovo che è il superiore degli uni e degli altri. Noi abbiamo una moltitudine di ordini religiosi centrati sul fare, mentre il loro monastero è più centrato sulla crescita spirituale e sull’accoglienza e l’accompagnamento della gente che ha bisogno di un aiuto spirituale. Questa è una carenza e un ritardo della chiesa occidentale. Ad esempio solo con il Concilio Vaticano II si è rimessa al centro la figura del vescovo.

Tante religioni (e non solo monoteismi) che sempre di più si incontrano, scontrano, confrontano. Ed è esperienza comune che tanti non credenti abbiano una dirittura morale superiore a quella di bigotti praticanti. Non c’è da qualche parte un’altra via, una strada comune?

Sono domande che mi pongo anch’io. Ancora per un po’ tutti noi, compresi i non credenti, saremo però imbevuti di una cultura cristiana. Alcune delle caratteristiche che il cristianesimo ha impresso nella cultura europea come il valore dell’uomo e il perdono (pur con il suo uso a volte strumentale) sono un vero e proprio imprinting. Non è scontato dire che tutti gli uomini sono uguali, basti pensare alle società basate sulle caste. E a proposito del perdono, per chiunque abbia frequentato un po’ di catechismo la parabola del figliol prodigo o quella della pecorella smarrita rimangono un deposito incancellabile nella coscienza.

Qual è in questo momento lo scandalo più grande?

La guerra. Perfino più della pedofilia, che perlomeno nessuno giustifica, a parte qualche pazzo. La guerra invece viene addirittura sacralizzata. Un fenomeno che noi pensiamo del medioevo, ma che ha trovato nel novecento il suo apice. E i cristiani non hanno saputo impedirlo. Anche in Ucraina è una guerra tra fratelli di fede. Il testamento che ci ha lasciato Gesù è che “tutti siano una cosa sola”, per cui le macerie spirituali di questa guerra dureranno molto di più di quelle dei palazzi bombardati, che speriamo presto si possano ricostruire.

La ringrazio per la pazienza e il tempo dedicato.

Figurati. Ora vieni giù che ti faccio vedere la tonaca di Don Pasquino Borghi.

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