Intervista con Brando Benifei (a cura di Federico Macchi).
Abbiamo intervistato Brando
Benifei, europarlamentare dal 2014 e dal 2019 capodelegazione del PD a Strasburgo, ospite a Festa
Correggio per un evento organizzato da YES - Young European Socialists. Brando
(36 anni) è uno dei più giovani esponenti nazionali del Partito, e protagonista
delle politiche del PD in ambito Europeo. Con lui abbiamo parlato a lungo di Europa (naturalmente), ma anche di diritti e del futuro del Partito Democratico.
Brando, sono passati ben sei anni
dai drammatici giorni della “Brexit” e da quella spinta anti-europeista che ha
accomunato leader politici e cittadini in tutto il continente, anche in Italia.
Come una pandemia e l’attuale guerra hanno modificato la percezione dei
cittadini sul ruolo dell’Unione?
Credo che l’Europa abbia saputo
rinnovarsi, facendo propria la spinta dei cittadini e del mondo
politico-istituzionale che stavano chiedendo a gran voce un’Unione capace di
reagire ed agire con maggiore forza e rapidità. Questo è avvenuto sicuramente
durante la pandemia con il Next Generation EU, ma anche nei mesi precedenti, ad
esempio riuscendo ad ascoltare ed interagire con il grande movimento giovanile
nato da Fridays For Future che opera per il perseguimento della giustizia climatica, intesa come connubio tra lotta al cambiamento climatico e giustizia
sociale. Da questa interlocuzione è nato il Green New Deal, che ritengo essere
un testo rivoluzionario per l’Unione e la dimostrazione di un’Europa che
ascolta le istanze dei propri cittadini.
Hai perfettamente ragione,
sicuramente negli ultimi anni l’Unione Europea ha saputo aumentare il proprio
raggio d’azione. Ma anche nei grandi interventi degli ultimi tempi non sono
mancate polemiche, basti pensare alla campagna di vaccinazione contro il Covid
e alle critiche sui contratti con le aziende farmaceutiche che hanno prodotto
questi vaccini. Credi che si possa ancora migliorare?
Assolutamente sì. Non sono
ovviamente mancate alcune difficoltà nell’azione dell’Unione. Se pensiamo alla
guerra in Ucraina, ad esempio, il vincolo del voto all’unanimità del Consiglio
è un forte limite che continua a creare alcune problematicità. Ma ora i
cittadini hanno capito che l’UE sta cambiando direzione, e che vuole mettere
insieme le forze in un grande sforzo collettivo, affrontando i propri problemi
e non cercando di evitarli. Tuttavia anche successi come il Next Generation EU
o la risposta all’invasione russa dell’Ucraina sono interventi caratterizzati
da una certa “fragilità” e “temporaneità”, che mostrano comunque come l’Unione
abbia bisogno di una nuova riforma strutturale, possibilmente orientata verso
un rinnovato federalismo che possa dare maggior rilievo istituzionale
all’Europa. Approfittiamo di questa nuova fiducia dei cittadini verso l’UE per
compiere le riforme strutturali di cui abbiamo bisogno, ora più che mai.
Hai giustamente citato il diritto
di veto dei singoli stati membri [l’altra
faccia del voto all’unanimità, n.d.r.] come uno dei punti critici nel funzionamento
dell’Unione. Oggi se ne parla molto, anche a Bruxelles, e molti esponenti
politici hanno espresso la volontà di superare questo modello decisionale.
Secondo te come andrà a finire?
Innanzitutto, dobbiamo scontrarci
con un piccolo paradosso: per togliere l’unanimità dai trattati serve un voto
degli Stati membri, ovviamente, all’unanimità. La strada è quindi impervia, e
ci sono tre possibili sbocchi. Il primo è che tutto rimanga immutato, scenario
che mi auguro fortemente non si verifichi: dopo una pandemia e dopo una conferenza sul futuro dell’Europa in cui si è parlato specificatamente di
questo tema, sarebbe tragico se il dibattito si risolvesse in qualche bella
frase sui diritti fondamentali senza toccare il diritto di veto. Una seconda
ipotesi potrebbe essere una vera e propria riforma dei trattati, in cui si
afferma che alcuni stati possano fare qualcosa di più assieme, anche senza
coinvolgere tutti i membri dell’Unione. Per capirci, vorrebbe dire
istituzionalizzare una “Europa a più velocità”, come di fatto accade già
adesso, basti pensare alle molteplici “sottocategorie” dell’UE, dall’Eurogruppo
fino ai paesi dello spazio Schengen. Un’Europa a più velocità non vorrebbe dire
smantellare l’UE, ma permettere a quegli stati che vogliono fare di più sotto
un punto di vista di un’unione fiscale, di bilancio o di politica migratoria di
poterlo effettivamente fare. Ovviamente non sarebbero compartimenti stagni, ma
“sottogruppi” aperti a tutti quegli stati che abbiano effettivamente queste
volontà.
E se alcuni Paesi non
accettassero di votare questa riforma?
Allora dovremmo costruire
comunque una “Europa a più velocità”, ma senza passare da una modifica dei trattati. Ad esempio scrivendone uno nuovo per creare questa nuova realtà
formata da chi vuole fare un passo in più nell’ottica dell’integrazione europea. Francamente, davanti a questo terzo scenario, solitamente i paesi più
restii accettano la riforma dei trattati abbandonando alcune remore o dubbi. Mi
rendo conto che vorrebbe dire “forzare un po’ la mano”, ma sempre rimanendo
all’interno di un contesto di dialogo istituzionale. Di fatto, se ci pensiamo,
è ciò che è successo con il Next Generation EU: gli stati più rappresentativi
da un punto di vista demografico e di PIL come Francia, Italia e Spagna si sono
mostrate disposte a realizzare un Piano di ripresa anche nel caso in cui non
tutti gli altri fossero stati disposti a seguirli, e questo ha convinto anche
leader scettici come Orbàn e Rutte. Dobbiamo dirlo chiaramente: noi vogliamo
un’Europa capace di superare il diritto di veto, e la faremo in ogni caso, sia
che tutti gli stati membri accettino questa riforma dei trattati sia che
qualcuno si tiri indietro. E su questo punto anche il PD deve essere chiaro con
i propri elettori, perché in campagna elettorale ci chiederanno che Unione
Europea vogliamo, e su questo non dobbiamo mostrare dubbi od esitazioni.
Recentemente è finita sotto i
riflettori la drammatica storia di una donna che sta rischiando la vita a causa
di complicazioni legate alla gravidanza a Malta, paese membro dell’Unione ma
che non le riconosce il diritto all’aborto. Credi che l’UE dovrebbe essere più
rigida con i propri stati membri e con chi vuole entrare nell’Unione sul
rispetto dello stato di diritto?
Certamente. L’attuale politica europea sui diritti fondamentali è fragile e spesso poco efficace, a causa di
limiti storici di alcuni stati sotto questo aspetto. Come Parlamento Europeo
stiamo riuscendo a creare alcuni strumenti più incisivi per garantire il
rispetto dello stato di diritto nell’Unione. Ad esempio, abbiamo recentemente
approvato un meccanismo di controllo dei bilanci che bloccherà l’erogazione di
fondi verso l’Ungheria, che come decretato dalla Corte di Giustizia non ha
ottemperato alla difesa di alcuni diritti fondamentali dei propri cittadini.
Purtroppo però questi sono interventi limitati e legati solamente
all’erogazione di fondi del bilancio europeo. Ancora una volta, in molte
procedure di messa in mora dei paesi che non rispettano lo stato di diritto è
richiesto il voto all’unanimità, e alcuni stati si difendono vicendevolmente
esercitando il diritto di veto. Se bastasse un voto a maggioranza le cose
sarebbero molto diverse, e le conseguenze per chi non tutela i diritti
fondamentali sarebbero più impattanti. Nessuno stato è stato obbligato o
forzato ad entrare nell’UE, è una scelta libera ed indipendente che porta molti
vantaggi a chi ne fa parte ma che comprende anche regole e doveri da
rispettare.
Sarebbe effettivamente un grande
passo avanti...
E intendiamoci, non riguarda
solamente i diritti delle “minoranze”, o di alcune categorie specifiche, che in
ogni caso sono temi fondamentali su cui abbiamo ancora molta strada da
percorrere. Pensiamo, ad esempio, a chi vuole aprire un’attività
imprenditoriale in un paese europeo in cui però i giudici locali disapplicano
una norma dell’UE a favore di una nazionale interpretata però arbitrariamente:
c’è veramente una concorrenza leale ed equa, se in Italia invece la normativa
dell’Unione ha il primato su qualsiasi altra legge o decreto? Un imprenditore
può investire in questi paesi sapendo che le regole potrebbero cambiare da un
giorno all’altro perché quelle valide su tutta l’Unione possono essere
facilmente disapplicate? Il rispetto dello stato di diritto ci riguarda tutti,
e ognuno di noi deve sentirsi coinvolto in questa battaglia.
Oltre che capodelegazione del PD
a Strasburgo, sei anche un punto di riferimento nazionale nel Partito. Come
vedi il futuro del Partito Democratico?
Per prima cosa, permettimi di
sottolineare il successo delle Agorà Democratiche, che sono state un’iniziativa
importante. Forse qui in Emilia o da altre parti il loro effetto si è visto un
po’ meno, perché eravate già abituati ad avere circoli territoriali vivi e
attivi ed una forte interlocuzione con il tessuto sociale locale. Ma in tante
altre aree del paese il Partito aveva smarrito questo ruolo di dialogo con il
territorio e di spinta propulsiva per proposte ed idee, e le Agorà sono
riuscite a riportare un po’ di questo entusiasmo. Ovviamente forse non sono
servite a fare migliaia di nuovi iscritti e non tutti gli spunti e le
riflessioni troveranno lo stesso spazio nelle politiche future dei PD, ma il
successo dell'iniziativa non può essere ignorato. Credo che il Partito nei
prossimi anni necessiti di un cambiamento sul piano dirigenziale, per cercare
di dare più responsabilità ai tanti giovani che “si stanno facendo le ossa” sul
territorio. Intendiamoci, non sto parlando di una rottamazione conflittuale ed
aggressiva, ma di un naturale ricambio generazionale, che avvenga gradualmente
ed in modo armonico. Ma sono profondamente convinto che anche Letta abbia compreso
la necessità di questo rinnovamento, e che stia già lavorando in questa
direzione.
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