Il Blog del Circolo del PD "Renzo Bonazzi"


L'Ostello della Ghiara e il centro storico


Intervista con Max Lombardo (a cura di Maurizio Frignani).

Siamo qui con Max, presidente della cooperativa Ballarò, che da più di 10 anni gestisce l’Ostello della Ghiara. Per prima cosa vogliamo capire in poche battute com’è stata l’esperienza di venire a Reggio Emilia da Palermo, trovandosi a gestire una realtà come l’ostello e quindi a fare l’albergatore e il ristoratore. 

La nostra esperienza a Reggio è nata 11 anni fa vincendo un appalto per la gestione di questo straordinario immobile che di fatto è l’ostello della città. Eravamo già presenti in Emilia perché già nel 2008 avevamo vinto l’appalto per la gestione dell’ostello di Ferrara, quindi stavamo già vivendo un’esperienza di vita e lavoro in comunità profondamente diverse dalla nostra terra d’origine. Il livello di sviluppo, civiltà ed educazione di queste terre mi fa dire che non finirò mai di essere grato all’Emilia che ci ha consentito di esprimere a pieno i valori e le qualità del lavoro che facciamo. Il nostro era un progetto da sognatori, originato dall’esperienza studentesca, politica e sindacale nell’Ateneo di Palermo, che costituisce il DNA della nostra coop, un patrimonio valoriale che ha plasmato fortemente la nostra attività d’impresa. Devo dire che in queste terre ha rappresentato un valore aggiunto, quasi sempre percepito dalle persone e dagli amministratori locali. Mi ricordo che quando noi, la cooperativa Ballarò di Palermo, abbiamo iniziato a Ferrara, chiedevamo agli ospiti all’atto della prenotazione una caparra con bonifico bancario presso la filiale 1 del Banco di Sicilia di Palermo. Gli ospiti poi ci confidavano che la combinazione di cooperativa di Palermo e banca siciliana alimentava qualche timore che fossimo un’impresa mafiosa! Nel tempo invece, a parte che il Banco di Sicilia ora è Unicredit, ha giocato il fattore territoriale e l’Emilia ha dimostrato che conta e resiste ancora il passaparola positivo e il giudizio sulla qualità delle persone e del loro lavoro. Negli anni la sfida è stata vinta e ora oltre agli ostelli di Ferrara e Reggio, dallo scorso anno gestiamo anche quello di Parma (oltre ad un ostello e una residenza universitaria in Toscana). E negli anni abbiamo riscontrato progressivamente un atteggiamento sempre più positivo all’arrivo di questa strana cooperativa siciliana. Il che ha permesso di esprimere al meglio la nostra capacità d’impresa.

Quindi tutto rose e fiori o anche qualche spina, nel rapporto con gli enti pubblici e quelli di controllo?

L’esperienza reggiana è stata per noi veramente povera di spine. A Reggio abbiamo trovato un habitat, delle persone e una classe dirigente con cui c’è voluto meno tempo per sviluppare conoscenze ed empatia, rispetto ad altre esperienze come quella ferrarese che è stata più tribolata. La maggiore serenità e ci ha consentito di fare qualcosa in più stimolati da questa sintonia con l città e le sue istituzioni. A Ferrara, come dicevo, qualche spina c’è stata. Intanto siamo arrivati tramite una gara d’appalto vinta dopo un ricorso al TAR. In prima istanza eravamo risultati secondi dietro un’impresa locale che però non aveva tutte le carte in ordine, quindi cominciammo l’attività in un’atmosfera non tranquillissima. Poi qualche anno fa tutto il sistema ferrarese di accoglienza dei richiedenti asilo, sistema di cui noi facciamo ancora parte, fu oggetto di un’indagine della magistratura che, per non saper leggere né scrivere, aveva iscritto tutti nel registro degli indagati.

La cosa per voi si è però risolta molto rapidamente….

La nostra posizione fu archiviata quasi immediatamente. Avevo chiesto di essere interrogato subito, dato che avevamo appena vinto la gara d’appalto per Parma e dovevamo firmare un contratto con l’ente pubblico. Tieni conto che l’accusa era di truffa allo stato, un’accusa gravissima in generale e ancora di più per chi ha una storia di orgoglio, identità e valori come la nostra. Ci siamo sentiti quasi violentati, se possiamo usare un termine brutale. Per fortuna sia il magistrato inquirente che la guardia di finanza hanno ascoltato le nostre ragioni, le hanno puntualmente verificate archiviando la nostra posizione. Così abbiamo potuto dopo la necessaria ristrutturazione aprire l’ostello di Parma nonostante il Covid. Abbiamo avuto momenti difficili, soprattutto per la pandemia, noi siamo turismo e commercio proprio i due settori più colpiti. Pensiamo all’attività di convegnistica, fiere, mostre, spettacoli che qui svolgevamo con continuità. Ora siamo ripartiti ma dobbiamo riprendere velocità. Ovviamente la nostra attività primaria rimane quella ricettiva. Noi siamo arrivati a registrare, in periodo pre-Covid, qualcosa come 15.000 presenze turistiche all’anno, un dato, se non il più alto, tra i più alti a Reggio, senza contare i richiedenti asilo (altri 8.000 all’anno, ora però non partecipiamo più alla gestione del Centro Accoglienza Straordinaria).

È un numero spropositato di cui non avevo assolutamente idea.

Con il Covid poi i numeri sono crollati, ma oggi ad esempio abbiamo 98 persone su 100 posti letto disponibili: 5 squadre giovanili europee di baseball qui per un torneo e un gruppo di studentesse americane che frequentano una summer school. Va detto che questo ostello ha una rara capacità attrattiva, è un bene monumentale di pregio in pieno centro storico che lascia senza fiato chi vi arriva dall’estero. Ad agosto per la prima volta da anni faremo una breve chiusura per riprendere fiato e fare manutenzioni e pulizie straordinarie. Una delle cose che non ci ha sorpreso della pandemia è che una struttura di comunità come la nostra era già attrezzata per la sanificazione. Le nostre abituali procedure, con un’utenza così numerosa ed eterogenea, ci hanno permesso di gestire in relativa tranquillità i protocolli di sicurezza.

Avete anche avviato un’interessante attività di ristorazione che, mi ricordo quando ero giovane, non era assolutamente normale trovare negli ostelli.

L’esperienza di Reggio è un’evoluzione di quella originaria che avviammo a Palermo. Quella di Reggio è forse la più fedele. Nello studentato di San Saverio, nel quartiere di Ballarò, facevamo un’attività di ristoro, meno curata di quella che facciamo ora, per permettere agli ospiti di godere a 360 gradi la permanenza, quindi gastronomia insieme ad arte con mostre e spettacoli. Quell’esperienza universitaria di fuori sede che vivono una città nella sua interezza si riflette ancora oggi nella nostra offerta. All’inizio con un po’ di fatica, data la proposta di una cucina di pesce, di chiara impronta siciliana e mediterranea, in una città senza tradizione di mare, ma dopo dieci anni direi che il risultato merita lo sforzo. Sempre più gente viene a mangiare, anche se non è appunto un’offerta per tutti i gusti. Compensiamo però con la banchettistica. Qui si fanno tanti matrimoni, cene di gala, eventi privati, le cappellettate del primo maggio. È un ostello con alcune caratteristiche delle vecchie case del popolo, dove tutti possono sentirsi a casa. Mi piace dire che i nostri ospiti esemplificano quasi l’articolo 3, comma 2, della nostra Costituzione: “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. L’altra sera a cena in un tavolo c’erano un’ucraina e una russa, altre volte i richiedenti asilo hanno condiviso questo spazio con il Rotary Club o i Lions o la Porsche Italia.

A proposito di centro storico. I titoli sono sempre gli stessi: chiudono i negozi, non c’è parcheggio, troppi ubriachi, la città è morta, c’è troppo casino, il comune non fa niente ecc. Dal tuo punto di vista, che conosce anche altre realtà, queste cose le senti anche tu?

Hai voglia. Per esperienza quando qualcosa non funziona ci sono sempre responsabilità non equamente ripartite, ma sicuramente collettive. Classe dirigente, cittadini ed esercenti. Quello che vedo è che il centro è in difficoltà soprattutto in alcuni periodi. Reggio ha una stagionalità paragonabile a una città di mare, anche se è una città d’arte nella pianura padana. Io ho fatto fatica a capire perché la gente vive la città solo dal 15 aprile al 15 ottobre e per gli altri sei mesi c’è solo il deserto. Non so se è il frutto di un’antica cultura contadina, ma il tentativo di destagionalizzare la fruizione del chiostro (abbiamo 700 mq di portici) perlomeno in autunno è stato infruttuoso. Siamo riusciti a far mangiare le persone fuori solo grazie al Covid. Non c’è il comfort di un ambiente al chiuso, ma l’Europa è piena di posti molto più freddi dove si sta tranquillamente fuori, con stufe e riscaldatori. A volte dobbiamo considerare che il benessere quasi illimitato conquistato in questi anni può essere messo in discussione in nome della sicurezza della salute e di beni collettivi di ben altro valore. Qui c’è molto da fare per le agenzie educative se vogliamo cambiare abitudini consolidate che esaltano il benessere senza sforzo o fatica. Si possono sperimentare cose nuove, noi ci abbiamo provato. Poi il centro storico ha problemi strutturali. Un errore è stato sicuramente quello nei decenni passati di aver trasferito le sedi di tanti enti pubblici. Oggi è difficile sedersi a pranzo in centro storico, perché non c’è un’utenza capace di alimentare stabilmente un’attività di ristoro in quella fascia oraria. Non c’è più fisicamente. Basta spostarsi appena fuori dal centro fino alle zone artigianali o industriali e trovi baretti che servono centinaia di coperti a operai, dipendenti e impiegati. È difficile far tornare per un pranzo in centro (e per un tempo brevissimo) qualcuno che ora lavora fuori. Con in più le note e giuste limitazioni di mobilità e parcheggio. La prima cosa sarebbe invertire questa tendenza. Io ad esempio ho sempre sostenuto che il Palasport andava rifatto e non ricostruito in periferia, perché avrebbe significato portare via un’altra importante fetta di utenza. Quindi bisognerebbe pensarci bene ogni volta che si decentrano anche eventi od iniziative.

Ma in specifico sulla ristorazione, io ho visto in questi anni una moltiplicazione dell’offerta e un altrettanto rapido aumento delle chiusure. Essere imprenditori vuol dire assumersi un rischio d’impresa, non ci si può inventare dalla sera alla mattina ristoratori e poi se le cose vanno male è sempre colpa di qualcun altro.

Ho già parlato delle abitudini dei cittadini e delle responsabilità delle amministrazioni. C’è sicuramente un problema degli esercenti. Ci sono attività impiantate senza un minimo di conoscenza di quella che è la composizione sociale e demografica della città. A volte si ragiona come fossimo a Milano o a Venezia. Reggio è un paesone che ora ha 170mila abitanti. Sembrano tanti, ma di questi 30mila sono stranieri immigrati, lavoratori con abitudini alimentari e reddito sicuramente lontani dai menu offerti. In non ne vedo uno a consumare drink e aperitivi. Un’altra fetta di consumatori italiani non reggiani deve fare i conti con bilanci familiari sostenuti da salari bassi e con una quota da destinare al consumo sicuramente prossima allo zero. Se poi togliamo una fascia di popolazione molto anziana Reggio ha una capacità importante di spesa concentrata in 50mila persone, reggiane e benestanti. Un numero importante, ma che non regge un aumento dell’offerta come è avvenuto. La torta si distribuisce in fette sempre più piccole e qualcuno non riesce a rimanere in piedi.

Se poi ci aggiungiamo Covid, smartworking…

Un colosso come la Cir ha dovuto chiudere l’unico self service presente nel centro storico.

È vero, era una mensa storica…

Noi abbiamo sperimentato con molta fatica l’apertura a pranzo. Servizio apprezzato, ma da pochi, nonostante via Guasco rimanga vicino a Provincia, Prefettura, e diverse scuole. Questa utenza non c’è. Alla fine molti locali che ci provano smettono di offrire questo servizio e i pochi che ne hanno bisogno non lo trovano. Il problema del centro storico può essere affrontato solo collettivamente, a più mani, e questa città ne ha sicuramente la capacità. Però ci vuole un disegno. Una parte del disegno è stato immaginato e cioè la riqualificazione fisica di parti importanti da Porta Castello a Piazzale Gioberti, da Piazza Fontanesi ai Chiostri di S.Pietro. La strategia urbanistica va bene, ma c’è bisogno di darle anche un’anima. Ho citato i chiostri di S.Pietro perché sono un luogo meraviglioso che soffre proprio di questo. Noi che gestiamo quest’altro chiostro sappiamo quanto è duro e quanti sacrifici sono necessari per far vivere un luogo pur bellissimo. Ci vuole una presenza costante notte e giorno di persone che bisogna pagare attraverso ricavi che si possono fare se offri servizi interessanti al giusto prezzo. Oggi si fa una fatica bestiale a tenere tutto questo insieme. Il lavoro è tanto e le risorse sono poche. Ora tra l’altro c’è un problema di risorse umane. Non troviamo giovani disposti a lavorare. Abbiamo messo annunci per la ricerca di camerieri di sala e in due mesi abbiamo ricevuto zero candidature. Quattro giorni alla settimana, sei ore al giorno con il contratto nazionale di categoria del turismo e commercio, non certo in nero. È una cosa allarmante, perché se questa è la disponibilità è difficile pensare anche ad investimenti. Il nostro è un lavoro che non può essere automatizzato e nemmeno delocalizzato. Non posso portare, fortunatamente, l’ostello in Cina e le mansioni sono prevalentemente manuali, si pulisce, si cucina, si cura il verde. Qui serve l’olio di gomito. Io che sono il presidente della cooperativa svolgo, se c’è bisogno, anche le mansioni più umili. Non possiamo chiamare per ogni cosa ditte esterne. Non staremmo in piedi. Questa struttura, locata in un edificio storico monumentale, ha i costi di un hotel a 5 stelle e i prezzi di un ostello, con una marginalità prossima allo zero.

Molti che pensano di essere imprenditori pensano però che questa etica del sacrificio non sia necessaria e poi si vede.

È un modello che è andato in crisi. La fortuna dell’impresa italiana, soprattutto quella cooperativa ed artigiana di queste terre, passava proprio dalla grande qualità e quantità di lavoro degli uomini e delle donne. Noi, che siamo siciliani, quando siamo arrivati con un’idea della cooperazione che poi abbiamo visto non più così presente. Noi facciamo di necessità virtù. Quest’anno per rifare il prato ho noleggiato la motozappa e l’ho zappato tutto, concimato, zappato di nuovo per distribuire bene il concime, seminato e poi ricoperto con 200 quintali di terriccio, spianato poi con un rullo. Spendendo in tutto trecento euro di materia prima. Qualche anno fa abbiamo fatto rizollare il prato da un’impresa locale, una cooperativa amica che ci ha trattato bene, e però abbiamo speso diecimila euro. Capisci bene che non possiamo spendere questa cifra. Ora ogni anno ne spenderemo trecento, io mi faccio due giorni da zappatore e giardiniere e mia moglie sarà pure contenta se l’allenamento mi rimette in forma.

Ultima domanda. Una cosa da chiedere al comune e fattibile in tempi rapidi.

Aprire un tavolo di confronto con gli operatori su questi temi confrontandosi sui progetti e le decisioni. Parlo di operatori, non di associazioni di categorie che sempre di più sono anche loro in crisi di rappresentanza. Si prende l’elenco delle imprese e si chiamano i titolari.


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