La burrascosa, e alquanto ridicola, apparente rottura tra Calenda e Renzi pare aver prodotto la fine precoce del Terzo Polo unificato, anche se tecnicamente non si può parlare di divorzio, dato che il matrimonio non c'era ancora stato e comunque qualche sorta di alleanza elettorale tra le due formazioni resta probabile, per lo meno alle europee, pena la loro scomparsa. L'ipertrofia dell'ego dei due protagonisti non ha bisogno purtroppo di commenti: impulsivo e rissoso all'eccesso uno (Calenda), abile nella politica politicante e inguaribilmente bisognoso di stare al centro dell'attenzione l'altro (Renzi). Anche se questo esito era stato da molti preconizzato, non è questa la storia che ci interessa. Vale la pena invece riflettere su due fenomeni della politica italiana: il partito che non nasce mai, e cioè il mitico centro liberale e quello che, sconfiggendo continuamente le previsioni degli allibratori e dei grilli parlanti, non muore mai, e cioè il Partito Democratico.
Per quasi mezzo secolo la Democrazia Cristiana, erede del Partito Popolare nato come risposta cattolica e di massa al movimento socialista (e al vecchio stato liberale) più che essere un partito di centro ha esercitato un ruolo centrale. Nel mondo del secondo dopoguerra, diviso in blocchi, e in un paese con una sinistra, socialista prima e poi soprattutto comunista, particolarmente forte, la DC è riuscita ad inglobare la gran parte dell'elettorato conservatore (quello che Montanelli invitava a votare turandosi il naso) facendolo convivere con quello cattolico-democratico, grazie all'appoggio della chiesa e alla necessità di una collocazione internazionale nel campo occidentale. Tra le sue molte anime probabilmente erano di più quelle che guardavano a sinistra piuttosto che alla tradizione liberale. Poi finisce la guerra fredda e cambia tutto. La sorprendentemente quieta ed incruenta dissoluzione della DC (che non a caso segue l'altrimenti sofferta e drammatica trasformazione del PCI) provoca un gigantesco vuoto nel sistema politico. Ed assistiamo al primo, e per ora l'unico riuscito, tentativo di ricostruire un centro, nuovamente in funzione anticomunista; parliamo cioè di Forza Italia. Ma con Berlusconi, nonostante la perenne rivendicazione di essere una forza autenticamente liberale (!), l'asse si sposta nettamente a destra, sdoganando gli eredi della tradizione neofascista, gli orfani arrabbiati dell'avventura craxiana e in generale il settore moderato e cattolico di quell'elettorato di cui sopra. E soprattutto appare per la prima volta il partito padronale, nel senso letterale, e cioè che appartiene giuridicamente e nei fatti a un proprietario, quindi un movimento politico legittimato dall'elettorato, ma privo di reale struttura democratica, perciò non contendibile. Il partito padronale (potremmo citare anche l'Italia dei valori di Di Pietro, i 5 stelle di Grillo, probabilmente la stessa Azione di Calenda) è ovviamente anche un partito personale, ma non vale sempre l'inverso. La Lega di Bossi, come forse quella di Salvini, oppure il PSI di Craxi sono o sono stati partiti con una fortissima ed indiscussa impronta personale, ma non erano solo e semplicemente proprietà del leader. Con la fine dell'epoca aurea del berlusconismo si riapre lo spazio al centro dello schieramento politico e non si contano i tentativi ci riempirlo. Ci hanno provato Monti, ma anche Montezemolo, Passera, gli intellettuali di Fare per fermare il declino, a suo modo anche Fini, più svariati altri. Anche +Europa (pur alleata al PD alle ultime elezioni) ha un posizionamento simile. La ricerca di uno spazio centrale, seppur minoritario, equidistante tra destra e sinistra e in grado di condizionarle, non rappresenta niente di nuovo. La novità è l'ambizione di costruire un partito liberale di massa (ma di taglio tecnocratico e efficientista) che l'Italia non ha mai conosciuto. Un'autentica araba fenice, che non può nascere solo dall'autoproclamata competenza di Calenda o dall'abilità tattica parlamentare del gruppo dirigente di Italia Viva (peraltro tutto ereditato dal PD).
E poi c'è il partito che non muore mai ed è proprio il Partito Democratico, un interessante e soprattutto unico fenomeno di formidabile resilienza. Perennemente osteggiato dalla sinistra piagnona e velleitaria, dagli intellettuali liberal e dai populisti di ogni risma, è sopravvissuto più o meno alle piaghe d'Egitto (forse mancano solo le locuste). Due segretari letteralmente fuggiti di notte, altri due dimessi per sconfitte o difficoltà di gestione e poi fuoriusciti, scissioni come se non ci fosse un domani, uno statuto barocco che detta tempi più lunghi di quelli richiesti dalle revisioni costituzionali. E poi errori, tanti e gravi, ma questa è la politica. Eppure, dopo pochi mesi dalla sconfitta elettorale e un periodo di totale afasia e caduta completa di qualunque autostima (la poca discussione verteva se sciogliersi o cambiare nome, pensate un po'), il fenomenale afflusso alle primarie e il loro sorprendente (e incontestato risultato) ha riportato il PD a generare livelli di attenzione e aspettative come non si vedeva da tempo (per tacer dei sondaggi, che quasi unanimemente lo danno oltre il 20%). Non è che questo deriva forse dal fatto che sia rimasto l'unico partito realmente democratico, né personale né padronale, contendibile ed espressione di una comunità? E non è che questa sia il lascito più prezioso ereditato dalle tradizioni politiche che ne stanno alla radice? Un partito dove non c'è bisogno di pasdaran che seguono il proprio leader in ogni avventura a prescindere e che non deve più essere un taxi (come a volte è stato) da prendere solo per arrivare alla destinazione voluta, a volte scendendo senza nemmeno pagare. Certo occorre rielaborare con pazienza e profondità una cultura politica complicata, ma ricca e plurale e non avere paura di rimettere in discussione vecchie e ideologiche certezze, aprendosi a quello che c'è di utile e nuovo. E aprirsi vuol dire prima di tutto aprire gli occhi sul mondo reale. Ma indubbiamente esiste nel paese una forte richiesta di radicalità, che non c'entra nulla con l'estremismo, ma con la capacità di decidere in modo netto (ma consapevole). Il voto giovanile ad Azione e Italia viva è stato, ad esempio nettamente superiore, al loro risultato complessivo. La crisi di quel progetto riapre nuove e inedite possibilità anche per il nuovo Partito Democratico che, magari, può incarnare la vera metafora dell'araba fenice, che sapeva rinascere dalle proprie ceneri.
Sull’ultima parte del tuo art.: dovrebbe essere una priorità perché il partito deve avere la capacità di tenere al suo interno posizioni diverse in grado di “parlare” ad ampi strati sociali
RispondiEliminaGrazie a Maurizio riflessioni e scenari interessantissimi
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